Per chiarezza espositiva strutturiamo il testo affrontando separatamente le diverse tecniche di pesca.
Diversamente, gli alletterati e le lampughe possono costituire una alternativa, tutto sommato gradita, in quei periodi di “magra” che ormai caratterizzano sempre più le stagioni dei tonni. Si tratta pur sempre di pesci di taglia discreta, che se pescati con attrezzatura adeguata possono anche regalarci divertenti combattimenti. Parlo di attrezzatura adeguata perché se è pur vero che talvolta restano allamati sulle lenze da tonni, è proprio calando di parecchio il diametro della lenza e la taglia dell’amo che riscontreremo un notevole incremento delle catture. Per questo è bene avere con se almeno una canna al massimo da 20 libbre armata con nylon da 30 libbre o anche meno, pronta ad entrare in azione qualora vedessimo questi pesci incrociare sotto la barca. Oppure per fare qualche tentativo, di tanto in tanto, per verificarne la presenza.
Tutti gli altri pesci, razze, tonnetti, lanzardi, spadini, che spesso in certi periodi si avvicinano alle nostre lenze, possono essere considerati un disturbo. Spesso infatti attaccano le esche destinate ai tonni, quasi sempre senza rimanere allamati, rovinandole irreparabilmente. In questi casi l’unico accorgimento è quello di controllare con maggior assiduità gli inneschi ma se il disturbo della minutaglia è eccessivo conviene cambiare zona di pesca. Sempre che non ci si voglia dedicare ai pescetti, consci però che ciò comporta quasi sicuramente alla rinuncia della cattura di un possibile tonno.
Qui la situazione può essere l’inverso di prima. Siamo a pesci di taglia piccola e attirato dalla pastura arriva il tonno. Ecco che questa volta la canna di riserva deve essere una bella 50 libbre, già armata con un terminale adeguato alla situazione. Non è una situazione estremamente frequente ma è capitato a tanti di noi di trovarsi con un bestione che ha abboccato alla cannetta da lanzardi e l’esito non è mai stato fausto, a meno dei tonnacchiotti di 10-15 chili. Certo, l’ideale è vederlo prima che abbocchi, il tonno, per avere il tempo di calare l’artiglieria pesante ma, haimè, accade di rado.
Quella del light driifting è una di quelle tecniche con le quali è possibile pescare molte specie di pesce. Non sempre luogo e periodo ci danno la certezza dell’incontro che faremo. Per questo è bene essere pronti ad apportare tutte quelle piccole differenze che renderanno la nostra azione più efficace, perché pescare lampughe o lanzardi, tonnetti o lecce stella, palamite o sugarelli, non è proprio la stessa cosa.
Iniziamo dalla traina in foce e comunque nell’immediato sottocosta. Traina di superficie, dunque, oppure affondando l’esca di pochi metri.
Le prede più ricercate sono i serra e le lecce. Nei periodi in cui entrambi i predatori si aggirano nel sottocosta può essere conveniente non precludere a priori la cattura di un pesce piuttosto che l’altro. I finali da usare, quindi, saranno un ibrido, un compromesso per rispondere efficacemente ad esigenze differenti. Il mio consiglio è di usare quindi un’attrezzatura dimensionata sulle lecce, canne da 20 libbre, lenza dallo 0,50 o anche 0,60 e ami dal 5/0 al 7/0 a secondo delle esche impiegate ma che preferibilmente saranno piuttosto grosse. L’amo trainante sarà fisso e monteremo comunque un cavetto d’acciaio da almeno 40 libbre.
Le sorprese in questa pesca sono poche. La possibilità di cattura di una grossa spigola è più teorica che pratica. Per aumentare la possibilità di un incontro che sicuramente sarebbe molto gradito è necessario aumentare la distanza tra esca e barca, utilizzare terminali più sottili, rinunciare all’uso del cavetto, scegliere esche più piccole. Scelte estreme che vista l’aleatorietà delle catture non mi sento di consigliare.
Vediamo ora cosa succede trainando col vivo a fondo.
Le prede che ricercheremo con maggior insistenza sono dentici e ricciole. Queste ultime non solo a fondo ma anche a mezz’acqua.
Le possibili sorprese sono tante, alcune gradite, altre molto meno.
Altre gradite sorprese possono essere lecce, prai, alletterati, serra, barracuda, palamite, cernie, pesci san pietro.
Le lecce frequentano saltuariamente le secche. Seppure di grandi dimensioni l’attrezzatura per le ricciole è più che sufficiente per portarle al raffio in pochi minuti perché non si tratta di un grandi combattenti.
Lo stesso vale per i prai (sono in tutto e per tutto simili ai dentici, al punto che molti li confondono) e le cernie. L’unica differenza è che queste ultime hanno la tendenza a raggiungere rapidamente la tana. Se ci riescono la cattura è definitivamente compromessa. Se abbiamo la ragionevole certezza che in una determinata zona c’è una concentrazione di serranidi consiglio vivamente di scegliere calamari o seppie come esca. Anche il polpo morto è molto gradito alle cernie.
I serra, se presenti, molto difficilmente rimarranno vittima di un terminale in nylon. All’attacco seguirà irrimediabilmente il recupero di una lenza tagliata, magari con l’esca mutilata dal suo terribile morso. Tornare sul posto con un terminale d’acciaio è l’unica possibilità che abbiamo.
Occasionalmente, soprattutto pescando con seppie o calamari, è possibile prendere delle bellissime orate. Ci vuole solo un pò di fortuna.
Meno gradite saranno invece altre possibili prede. A noi è capitato di catturare grosse tracine, murene e perfino un polpo che portato in barca continuava a mangiarsi la seppia, ormai morta.
Capitolo a parte, le tanute. Pescando con seppie o calamari, spesso subiremo i loro attacchi che inevitabilmente portano alla morte dell’esca. In pesca, avvertiremo come tanti colpetti e salpando l’esca la troveremo con i tentacoli mutilati. La vendetta è possibile aggiungendo al terminale due braccioli con ami piccoli da celare proprio innescando i tentacoli. Ancora più efficace, con le tanute, ma anche con dentici e prai di piccole dimensioni, è la traina con una striscia di calamaro ricavata dal mantello e armata con due ami.
Questa è un’altra tecnica che può essere applicata in situazioni molto differenti. Trainare una piumetta intorno a uno scoglio o un grosso artificiale in altura non è esattamente la stessa cosa. Andiamo allora per gradi.
La traina di superficie coi piccoli artificiali, siano essi minnow, cucchiaini o piume, di solito viene effettuata per procurarci il vivo da utilizzare successivamente in pesca alla ricerca dei predatori. Occhiate, aguglie, sugarelli, lecce stella sono le catture abituali.
La stessa cosa è valida trainando più al largo. Si cercano sugarelli e lanzardi ma si possono trovare anche lampughe, tombarelli e palamite. Meglio allora un’attrezzatura un pò sovradimensionata che in caso di necessità può garantirci la cattura di un bel pesce.
In altura normalmente l’assetto di pesca è già orientato verso il pesce di mole, sia esso un tonno di branco, una alalunga, una lampuga o un’aguglia imperiale.
Per lo spinning costiero gli hot spot sono costituiti prevalentemente da zone in cui la morfologia della costa è caratterizzata da elementi di discontinuità. Zone portuali, presenza di manufatti, foci dei fiumi o anche di torrentelli a carattere stagionale, scogli affioranti, isolotti e secche costituiscono tutti luoghi di interesse potenziale. Qui cercheremo prevalentemente spigole, barracuda, lecce e serra. L’attrezzatura impiegata sarà proporzionata alla mole dei pesci che presumibilmente incontreremo ed anche alle catteristiche di combattività in una scala ideale che va crescendo dalla spigola alla leccia.
Più al largo, le possibilità di pesca a spinning sono legate alla presenza di mangianze oppure all’incontro più o meno casuale di oggetti quali cannizzi, boe od oggetti galleggianti alla deriva.
Anche sugli oggetti galleggianti l’approccio deve essere quello: prima si cercano eventuali lampughe e tonnetti e successivamente ci si dedica ai pesci pilota.
Parliamo del vero e proprio “vertical jiigging”, non dello spinning effettuato con i jig.
Su profondità maggiori, invece, l’uso di esche più grandi e pesanti diventa un must, pena l’impossibilità di raggiungere il fondo. Tutta l’attrezzatura deve di conseguenza essere adeguata per poter affrontare il recupero di pesci di taglia decisamente interessante.
Anche in questo caso, è necessario suddividere questa tecnica almeno in due distinte, il bolentino in bassi e medi fondali ed il bolentino di profondità.
Nel primo caso, la prede più comuni sono i fragolini, i saraghi fasciati, le tanute e purtroppo le perchie se si pesca sulla roccia. Riuscire ad evitare queste ultime sarebbe una bella conquista, purtroppo è quasi impossibile, abboccano a tutto.
Attraverso l’uso di esche più sostanziose è possibile invece aumentare la taglia dei pesci catturati. O meglio, è possibile evitare o almeno ridurre le catture di pesci troppo piccoli. Il gamberetto, il pezzetto di seppia o calamaro, il pezzetto di cannolicchio, l’americano, il bibi, ad esempio, da questo punto di vista sono meglio del coreano saltarello o della tremolina.
Nelle stesse zone possono girare anche tanute più grosse, prai e dentici. Allora è da prendere in considerazione anche la possibilità di un’attrezzatura un pò più pesante, magari su una sola canna, e l’uso di esche quali la sarda intera o un guizzante pesce vivo.
Nel bolentino di profondità è abituale utilizzare terminali nei quali l’amo più in alto, quello più vicino alla lampada stroboscopica, è dedicato alle cernie mentre gli altri sono proporzionati per gli occhioni, gli scorfani, i naselli.
Alle volte le prede allamate vengono attaccate durante il recupero da calamari e pesci sciabola. Per i primi, si possono aumentare le catture utilizzando un’apposita totanara; per i secondi è necessario armare il terminale con braccioli in treccia d’acciaio al posto del nylon.
Le sorprese sono sempre possibili. A 400 o 600 metri di fondo girano pesci strani. Pesci dalla identificazione difficile. Le profondità del mare sono le sole zone parzialmente ancora inesplorate del nostro pianeta. Forse lì ci vivono delle creature ancora non scoperte. Di sicuro miti e leggende narrano di creature gigantesche.
Chi pescherà per primo un calamaro gigante?